Ho sempre amato le lettere.
Sì, le lettere scritte a mano, quelle che ormai non si usano quasi più. Erano un modo particolare, non privo di controindicazioni, per esprimere concetti complessi e creare, o sostenere, un rapporto con chi era lontano da noi. Ho iniziato a scrivere lettere alle scuole superiori. C’erano riviste per ragazzi che riservavano pagine intere a rubriche dedicate a chi voleva avere un “amico di penna”, così si diceva. C’era qualcosa di entusiasmante e curioso nell’idea di relazionarsi con un completo sconosciuto e sapere di lui, o lei, attraverso solo e unicamente ciò che sarebbe stato capace di scrivere, e viceversa. Ma quelli erano altri tempi, io ero molto, molto più giovane e mi annoiavo facilmente. In realtà la faccenda della noia non è cambiata molto nemmeno con la maturità. Così non sono mai riuscito a far durare quelle corrispondenze più di qualche mese. Eppure. Eppure le lettere come strumento di comunicazione mi sono rimaste nel cuore e solo qualche anno dopo ho scoperto il loro fascino reale, assieme alla potenza di ciò che avrebbero potuto generare se scritte sospinte da motivazioni abbastanza forti. Ma certo, certo che sto parlando d’amore. Ne parliamo un’altra volta?Se stai leggendo queste parole e sei nato dopo l’avvento degli MP3 o della messaggistica istantanea, c’è una forte probabilità che ciò che sto scrivendo ti risulti difficile da comprendere, forse addirittura alieno. Ed è giusto così. Ma lasciatelo dire. Ti sei perso qualcosa di grande. Perché anche se le lettere un tempo sopperivano a una necessità precisa, cioè quella che ti accennavo prima, di far crescere o consolidare rapporti interpersonali, restavano un mezzo di comunicazione che imponeva una curva d’apprendimento spesso piuttosto ripida. In sostanza, non si scriveva una lettera per ammazzare il tempo, e non ci si prendeva la briga di vergarne una se non si aveva qualcosa di importante da dire.Ci si doveva chiarire le idee, meditare con attenzione sul messaggio da comunicare e scegliere le parole. Scegliere le parole. Oggi non lo facciamo più con la stessa attenzione. L’avvento dei messengers e delle note vocali ha piantato l’ultimo chiodo sulla bara in cui abbiamo rinchiuso la capacità dei più di dare peso e significato a ciò che scriviamo. Travolgiamo gli altri, e ci facciamo travolgere da loro, con le parole. Spesso superflue, sconsiderate e, forse proprio a causa di ciò, pericolose. Mi sono reso conto di quanto le cose siano davvero cambiate quando, ormai lo scorso inverno, ho ricevuta una lettera. Accompagnava un regalo. Era un regalo importante, mi sono reso conto dopo, oltre che ben scelto. Nel pacco che la conteneva c’erano dei libri, quindi mi si è disegnato sul volto uno stupido sorriso trasognato. I libri mi fanno questo effetto, purtroppo. Poi la persona che mi ha fatto il regalo mi ha guardato negli occhi e mi ha detto, con la voce un po’ più bassa di quanto mi aspettassi: «C’è una lettera dentro. È solo per te. Solo per te.» Quel gesto mi ha spiazzato. Non ricevevo una lettera da così tanto tempo che, in un certo senso, la mia mente sembrava aver cancellato la possibilità di leggerne ancora una. Una possibilità volata via così, senza fare rumore. È una cosa tristissima. Quella lettera parlava d’amicizia e di rimpianti. Conteneva delle considerazioni profonde sulla vita di chi l’aveva scritta. Incertezze, dubbi, sensi di colpa. Era una lettera scritta con il cuore, senza filtri, con la consapevolezza dell’importanza di ciò che custodiva, e carica della speranza d’esser compresa. Forse sta lì tutto il potere ipnotico di una lettera scritta a mano. Il suo messaggio non ammette interruzioni, non si può modificare o correggere, non teme smentite. Le risposte che quel messaggio riceverà non saranno immediate e, si spera, arriveranno solo dopo altrettanta, profonda riflessione. È quello che ho fatto io. Mi ci è voluto un po’ per razionalizzare, mettere da parte il romanticismo che mi ha fatto andare in brodo di giuggiole all’idea di aver ricevuto una missiva d’altri tempi e decidere che era il caso, o l’ora, di dare adeguata risposta. Ho radunato le idee, mi sono messo alla scrivania e ho iniziato a scrivere. Dopo un paio di minuti mi doleva la mano. Ho capito che avevo perso l’abitudine a scrivere.È stato terrificante. Lì, mentre lottavo per scrivere una risposta adeguata, mentre pensavo alla tristezza che l’abbandono dell’uso delle lettere ha lasciato dietro di sè, ho realizzato una verità importante su di me e sul mio modo di vedere il mondo . Perché, in fondo, cosa sono le lettere se non storie? Racconti di cui siamo protagonisti. Ecco cosa sono. Li viviamo tutti i giorni, ora dopo ora, minuto dopo minuto e cerchiamo di mantenerne viva la memoria. E sto scrivendo questo diario di viaggio che, adesso lo sai, è solo una lettera che spero vorrai leggere, proprio nella speranza che il ricordo che custodisce duri di più, assieme a te. Non è scritta a mano, sulla carta che tanto ci piace annusare, hai ragione. Ma non contiene parole abbandonate a sé stesse, vittime del caso. È una lettera per te esattamente come quella che ha accompagnato quel regalo e quei libri. È un ponte tra di noi. Nostro. Non sarà l’unico, te lo prometto. Abel
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AutoreLe mie storie d’amore per la narrazione, ovunque. Archivi
Dicembre 2023
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